In una parte del testo di apertura in Pensieri sull’educazione artistica (1992) di Rudolf Arnheim la professoressa Lucia Pizzo Russo, in conversazione con Arnheim, tenta di trovare un punto di contatto fra il pensiero di Arnheim e quello di Gaetano Kanizsa (due importanti esponenti della psicologia della percezione). [1] La discussione verteva sul binomio – vedere e pensare – e sull’enunciato di Arnheim :
Percepire visivamente è pensare visivamente
Dove percepire è inteso come diventare consapevoli. Un esempio si ha nello slang inglese-americano con l’uso di I see o I see you può voler dire: vedo o ti capisco. Mentre l’uso di I feel e I feel you sottintende un sentirsi, un percepire umanamente: sento e ti sento.
L’immagine qui sotto [2] era al centro del dibattito, il tema era il concetto di completezza: la figura (a) rappresentava il “concetto”, mentre la figura (b) rappresentava il “percetto” o percezione.

Pizzo Russo descriveva così l’immagine :
L.P.R. Questa figura (a) è il disegno di un uomo senza braccio, quindi incompleto; visivamente tuttavia è completa. Quest’altra figura (b), viceversa, è incompleta anche visivamente. Abbiamo quindi una raffigurazione completa di un uomo incompleto e una raffigurazione incompleta di un uomo. Sebbene manchi ad entrambe le figure un braccio, la prima è incompleta per il concetto di uomo ma visivamente completa; la seconda è incompleta dal punto di vista percettivo, visivamente il braccio tende a continuare, tende a completarsi.
Ora, il testo continua con Pizzo Russo che incalza Arnheim sulla coincidenza fra della logica del vedere e del pensare; ma concentriamoci sulle immagini e la descrizione… Nella sua sintesi la rappresentazione visiva può avere molteplici interpretazioni e applicazioni, dunque perché non applicarla all’adozione!?
Secondo Arnheim, il pensiero fa affidamento sui sensi, in primo luogo la vista.[3] Alla base della letteratura che è stata scritta da figlie e figli adottivi e affidatari, in particolare riguardo al post-adozione e la ricerca delle origini (o di se stessi), vi è un diffuso senso di incompletezza: le frasi come «C’è un buco dentro di me» o «E’ come se mi mancasse qualcosa» sono infatti una percezione diffusa, un po’ generalizzata, ma assolutamente concreta.

L’uomo col buco [4], chiamiamolo figura(c), da forma al concetto racchiuso nelle frasi sopra citate. Quella mancanza, quel senso di incompiutezza, che stimola ogni forma di ricerca. Siccome i buchi fan paura e le ferite fanno male, si va cercando, il pezzo mancante, la serenità perduta; ma, così come la ricerca, anche l’adattamento (il vivere col buco) è un altro modo per tendersi verso la completezza. A differenza dell’immagine presa ad esempio da Pizzo Russo, nella figura (c) convivono entrambi i concetti – completezza e incompletezza – allo stesso tempo; vederli è una questione di punti di vista, di prospettiva, per non dire di percezione.
alessia petrolito
[1] Pizzo russo L., 1983, Conversazione con Rudolf Arnheim “Aesthetica Preprint”, 2; ora in Pizzo Russo L., a cura di, 2005
[2] L’immagine utilizzata per dibattere il concetto di completezza è regolata dal principio di forma chiusa della Gestalt; le forme chiuse vengono percepite con più facilità rispetto a quelle chiuse.
[3] Arnheim, R. ; Il pensiero visivo (Visual thinking, 1969-89) Trad. da Renato Pedio, Einaudi, 1974
[4] Il vuoto crea una apertura, uno ‘spazio tra’, e il colore di fondo aiuta l’occhio a rispettare la legge della continuità della forma secondo cui vi è una percezione unitaria degli elementi interrotti. Senza il vuoto la figura manca della profondità e dell’espressività necessarie per la sua esistenza.