Un’estate al mare, avevo all’incirca 13 anni, passeggiavo mano nella mano con mio padre vicino ad un’area bimbi. C’erano un paio di signore di mezz’età sprofondate nelle sedie di plastica, non feci caso al loro sguardo, ma doveva essere torvo e rivolto verso di noi perché udii mio padre gridar loro: “Guardi che è mia figlia!” e loro rispondere: “Ahh! Sa com’è a quell’età sembran tutte signorine!”.

Il ricordo mi è tornato in mente nel vedere l’opera di O Zhang (1976), artista cinese residente a New York. Il suo progetto “Daddy & I” (2005-2006), ritrae padri adottivi in posa con le proprie figlie adottive di origine asiatica, sottolinea provocatoriamente il contrasto etnico e culturale prodotto dall’adozione internazionale e il suo legame con il capitalismo. In “Daddy & I no.18” le due bambine indossano abiti tipici e reggono ombrelli di seta, un chiaro riferimento all’orientalismo teorizzato da Said. [1] Ed in entrambi l’ipersessualizzazione della figura femminile asiatica, ed in questo caso delle bambine, viene enfatizzata dall’uso della parola daddy (papi/paparino) [2] e dalla vegetazione sullo sfondo, ripresa anche nelle varie installazioni.

Ad un primo sguardo, anche per un occhio avvezzo alle costellazioni adottive, l’ampio gap generazionale e la mancata rassomiglianza insinuano una connotazione sessuale, che rasenta la pedofilia. La descrizione però ci rassicura; le informazioni contenute spostano il pensiero sulle dinamiche familiari, e quindi sull’adozione, anche se l’immagine non smette del tutto d essere ambigua. Nello statement che accompagna il progetto, Zhang pone alcune domande, due delle quali riporto qua sotto :
– “Qual è la natura di questa complessa relazione, specialmente quando vengono introdotti diversi scenari etnici e culturali?” [3]
– “Quando le bambine cresceranno, rimarranno innocenti figlie adottive sotto la tutela dei loro patriarchi occidentali? O il progredire della loro maturità disturberà l’equilibrio della relazione?” [4]
Domande a cui il dipinto ad acquarello “Can you and me walk together?” (2014) di Cecilia Flumé ( 1988), artista svedese di origini coreane, sembra rispondere quasi dieci anni dopo. Flumé raffigura se stessa e suo padre adottivo a passeggio mano nella mano, il fondo bianco non aggiunge un contesto geografico specifico, ma sappiamo da Flumé che è la Svezia. L’opera è ispirata dalla consapevolezza dell’artista rispetto allo sguardo altrui nello stare accanto al proprio padre.

Le due opere, seppur diverse per caratteristiche stilistiche, dialogano molto bene insieme facendo luce su un’esperienza comune tra figli adottivi in famiglie transrazziali. Un tema di cui in Italia si tratta quantomeno di rado, sia nell’educazione impartita ai novelli genitori adottivi che nei servizi di supporto alle famiglie nel post-adozione, probabilmente per via delle modificazioni socioculturali e dell’imprevedibilità della curiosità e altre reazioni umane.
Nella corrispondenza via e-mail avvenuta tra Flumé e me, l’artista scrive che le relazioni tra donne tailandesi e uomini svedesi decisamente più maturi non sono rare, ed è così che lei spiega a stessa la reazione della gente nel vederla con suo padre. “Come possono sapere che è mio padre?”[5] scrive riferendosi ai cittadini comuni; un passante qualunque, estraneo ad un contesto familiare e socio-culturale di tipo ristretto (come il paese, il quartiere, l’ambiente scolastico e lavorativo) difficilmente ne verrà a conoscenza; a meno che i linguaggi verbale e non verbale vengano usati per chiarire la relazione.
Il dipinto di Flumé sembra rispondere proprio alle domande di Zhang. In un articolo scritto da Kathy Battista, Zhang si interrogava sul futuro delle figlie adottive e si chiedeva se sarebbe stato il loro status (ed implicitamente le loro origini) a cambiare la cultura occidentale trasformandole in vere e proprie militanti – una sorta di ‘China biggest revolution’ – o se avrebbero mantenuto il privilegio e ‘l’innocenza’ della loro ‘posizione adottiva’. [6] Forse il lavoro di Flumé non affronta direttamente il discorso capitalistico sul quale sembra concentrasi Zhang ma di certo, con tono altrettanto provocatorio, afferma che da adulte vestire ‘la posizione adottiva’ non è sempre né confortevole né innocente.
Per quanto la famiglia adottiva transrazziale e la coppia multietnica possano essere socialmente accettate, entrambe rimangono percepite come socialmente ‘non conformi’; ma per il pensiero collettivo le persone adottate crescendo, smettono di essere percepite come figli e figlie, scomparendo di fatto dall’equazione familiare per entrare definitivamente in quella sessuale. All’atto pratico nel girare con i propri genitori si ‘diventa’ amici, patners e badanti. Per concludere, il fenomeno non è esclusivamente occidentale e non riguarda solamente le figure femminili. Le stesse dinamiche si ritrovano nei figli adottivi e nei figli frutto di matrimoni multietnici. Ciò si può ricondurre ai concetti di norma e famiglia che regolano la sessualità in ogni società umana. Nel caso dell’adozione abbiamo due buoni esempi che ne rivelano stereotipi e paradossi:
- Loving Belinda Project (2006-2015) il mockdocumentary dell’artista e film-maker danese Jane Jin Kaisen, dove Kaisen e il ricercatore Tobias Hübinette (entrambi adottati) interpretano una coppia di novelli genitori adottivi americani di origini asiatiche, gli Anderson, con la loro figlia adottiva di origini danesi dagli occhi azzurri e i capelli biondi.
- Il a déjà tes yeux (2016) la nuova commedia del regista francese originario della Martinica Lucien Jean-Batipste, in cui assieme a Aïssa Maïga vestono i panni di due novelli genitori adottivi neri di nazionalità francese; la coppia incontra le resistenza della famiglia senegalese di lei quando decidono di sfidare la tradizione accettando l’affidamento di un bambino francese dagli occhi azzurri.
Un sentito grazie a Cecilia Flumé e O Zhang, per la disponibilità e la cortesia, a Jessica Emmett per avermi parlato del lavoro di Zhang e tutti gli artisti citati per il lavoro che svolgono.
Alessia Petrolito
RIFERIMENTI:
Parreñas Shimizu, Celine; The Hypersexuality of Race: Performing Asian/American Women on Screen and Scene, Duke University Press, 2007
Wade, Peter; Race and Sex in Latin America, Pluto press, 2009
Said, Edward W.; Orientalismo (1978), Bollati Boringhieri editore, Torino, 1981
Battista, Kathy; “Female Artist and O’Zhang’s Art”
Jane Jin Kaisen, Loving Belinda Project (Amando Belinda), 2006-2015 – janejinkaisen.com
Lucien Jean-Batipste, Il a déjà tes yeux (Lui ha già i tuoi occhi), 2016 – lucienjeanbaptiste.com
Links in relazione:
http://cdeacf.ca/dossier/dossier-special-lhypersexualisation-jeunes-filles-phenomene
https://harlows-monkey.com/home/
NOTE:
[1] Per Said l’orientaliasmo è “modo occidentale per esercitare la propria influenza e il proprio predominio sull’oriente” (p.5), un fenomeno che la cultura occidentale riflette sul concetto di tradizione culturale per cui il senso di appartenenza ad un gruppo religioso e/o culturale si manifesta in maniera superficiale con vestiti, cibo… () in E. W. Said Orientalismo, (1978), Bollati Boringhieri, Torino, 1981
[2] In spagnolo papi (da papito – papà nel registro colloquiale) nello slang latino americano significa anche bello e viene usato per riferirsi al proprio ragazzo o amante.
[3] “What is the nature of this complex relationship, especially when different ethnic and cultural backgrounds are introduced?
[4] “as the girls grow up, will they remain innocent adoptees under the tutelage of their western patriarchs? Or will their progression to maturity disturb the relationship’s equilibrium?”
[5] “How can they know it’s my dad?”
[6] “To me, those adopted girls symbolize the future of China. Will it be a rebellious force to the west or simply remain as an innocent adopted posture (as adopting capitalism)?” in Kathy Battista “Female Artist and O’Zhang’s Art”
Thanks, great article.