Adattamento Master Thesis “Black But Italian. Not just Black and more than Italian” (2016)
-Parte 2-
Adottare significa scegliere, [21]
l’influenza del credo sulla visione.
Si sceglie di credere al ‘come tuoi figli’,
cosicché, con l’amore e con la quotidianità,
la vista si trasforma in inganno e successivamente in adattamento.
L’inganno sta nell’indifferenza alla differenza,
l’esperienza, anche ottica, di una mancata corrispondenza genetica.
I tratti somatici celano le vere storie.
La rabbia si dirige verso chi non ti vede,
verso chi non conosce.
Quegli occhi che non leggono più,
un paesaggio che cambia perché all’orizzonte appari tu,
il diverso, “l’estraneo”,
che poi il colpevole non sei tu.
Rapper e attivisti sottolineano la cittadinanza mancata; [25-26]
dietro le loro parole c’è emergenza,
dietro le loro parole c’è esigenza.
Italiani dalle origini differenti,
uteri che restano frontiera, [27]
generatori di una visibilità di conflitto,
che dà adito alle supposizioni della gente.
Se mai ci fossimo incontrati,
ovunque, tranne che in Italia…
Solo l’accento ci avrebbe reso riconoscibili.
Ma quando dico ‘siamo diversi’ :
la risposta è compiacente, riduttiva.
Il mio è un passato non vissuto, come può questo essere mio?
Un passato che tace,
è silente fino a che non lo svegli.
Un passato che rincorri,
eppure ti stana.
Ti provoca.
È fuori,
visibile sulla tua pelle,
eppure ne trattiene i segreti,
al di sotto,
all’interno.
Un passato nascosto,
a meno che non se ne parli.
Negli Stati Uniti non mi ritrovo,
il loro passato,
è come se non fosse mio.
Forse, il perché sta nei ricordi…
Il ricordo è linea,
una connessione con la propria famiglia,
con le generazioni passate.
Quante volte i genitori dimenticano di raccontare?
Mi è passato di mente,
è che uno non ci pensa,
è colpa della routine,
è passato del tempo…
E noi,
i loro bambini,
perdiamo quello che non ci è stato passato.
Il mio era un bisogno,
trovare un identità di gruppo.
Qualcuno,
che potesse capire.
Qualcuno,
nero
ma non solo nero.
Qualcuno,
italiano
ma molto più che italiano.
Qualcuno come me,
adottato,
ma dagli Stati Uniti.
La ricerca ebbe inizio in primavera,
e rapidamente divenne ossessione.
Domande che non mi ero mai posta,
quando si ha modo di fantasticarci sopra,
non sapere uccide.
Quanti?
Informazioni frammentate
Quanti siamo?
5
24
32
35
35 o 37?
Quelli che si ricordavano fecero i nomi.
Ma dove?
Indizi.
Sorprese.
Discrepanze.
Parte dei dati era persa,
altri anche peggio,
mai registrati.
Come scoprire?
Nessuno ci aveva mai pensato.
Perché?
Perché?
Perché?
La ricerca fu mirata,
frustrante,
intensa.
I social network furono d’aiuto.
Foto silenziose.
Nomignoli.
Risposte amichevoli.
Ostinati silenzi.
È troppo?
Sono troppo intensa?
Ne ho il diritto?
Estenuante.
Liberante.
Cercarli,
era come cercare me stessa.
L’idea dell’incontro
prese forma nella mia mente.
Possibile?
Una data.
Un posto.
Tutto da chiedere.
Tutto da decidere.
Le domande.
I perché…
Alcuni furono difficili da trovare.
Provai con Facebook,
Google Search
Google +
Chat
Lettere…
E finalmente…
Giorno dopo giorno,
chi mancava
rispose.
Sentire le loro voci,
italiane,
profonde e sospettose,
aperte e amichevoli.
Chattammo a lungo,
e fu strano,
nella mia testa
le loro voci avevano un tono…
Ma non avevo mai pensato al loro suono…
Sentirne gli accenti fu una sorpresa.
Eravamo tutti sorpresi.
Pur immaginandocelo,
e avendo atteso quel momento,
sentirci…
Insieme,
non tutti,
ma abbastanza…
Per essere tanti.
Per restare attoniti.
Per sorridere.
Così abituati ad essere diversi.
Così abituati ad essere unici.
Per via
della nostra storia,
della nostra pelle…
Anche tra di noi
è stato più facile
presumere
una somiglianza
« Ma i tuoi capelli sono diversi! »
che prepararsi alle nostre differenze.
Inibiti
« Quello non può essere un nigga è troppo chiaro! »
ma
simili
neri
americani
adottati
e italiani.
Tutti diversi,
ognuno con la propria storia,
la sua vita
e le sue peculiarità.
Il più alto.
Il più basso.
Il più vecchio.
Il più giovane.
Il più timido.
Il più audace.
Il più scuro.
Il più chiaro.
Tu chi sei?
Siamo imparentati?
Chi era sempre stato,
dopo l’incontro
si trovava in qualche modo ridefinito.
I nostri capelli.
I nostri tratti.
La nostra pelle…
Noi,
eravamo dodici.
Lì,
in piedi,
seduti in una trattoria.
Ma lo sentimmo.
Loro lo sentirono.
Non posso dire cosa ciascuno vide negli occhi dell’altro.
Empatia.
Loro l’hanno sentita.
Tutti erano d’accordo nel considerarmi pazza,
per quello che avevo fatto.
« Ti stimo tantissimo »
Ed io che non vedo l’ora di tornare.
L’America è più bella dalla televisione
È solo Chicago!
La mia frustrazione.
Sono l’unica ad aver vissuto lì
Sei esagerata!
In quel momento,
si sentirono,
meno solitari.
Uniti, ma tutti diversi. [33]
‘We’
Noi siamo quelli che condividono.
La storia,
la nostra storia
è solo nostra.
Mi interrogo…
Sulle direzioni.
Mi interrogo…
Sulle decisioni.
Tornare indietro
Dove andare,
Cosa fare…
Partii all’avventura,
trasportando risentimento.
Tornerò,
trasportando un cambiamento.
La mia voce è cambiata,
casa mia è cambiata.
Quando succede,
com’è che si è sempre così impreparati?
Il tempo passa,
lo sanno tutti.
Com’è che non si è mai preparati?
Né libro.
Né sito.
Restiamo comunque ingenui.
Non saremo mai pronti,
eccetto che a perderci. [35]
Passata la soglia
Tutto è un malinteso
Come scrive Franco La Cecla, nell’incontro
ci si perde. [36]
Sono partita in cerca di un futuro,
migliore,
di una promessa,
di felicità.
Come un pioniere,
un girovago,
disegnando la via
mentre andavo.
Sono partita senza pensare
che sarebbe cambiato tutto.
Sentendomi libera
e allo stesso tempo detestabile.
Rimpiango me stessa,
la me, che è rimasta indietro.
Intrappolata
tra il conforto dell’insediamento,
e l’abbandono dell’indipendenza.
Abituata a sentirmi incerta,
una volta percepita una sicurezza alle spalle.
Pronta a partire,
ad attorcigliare il semplice,
a complicare il complicabile.
Andare via.
Diventare…
E m i g r a n t e.
Una adottiva soffre,
il suo paese natale,
e la perdita
si sente.
Così come scrive Vilém Flusser
nascere è un’azione inflitta. [37]
Il viaggio,
è nuova esistenza.
Una nuova cultura,
è nostalgia,
ma anche liberazione.
È potere.
È scelta.
Mantenere un ricordo mi fa sentire leggera,
un po’ libera, ma più di tutto persa. [38-39]
Da adottivi non si è più martiri, vittime o ribelli,
si diventa pellegrini. [40]
Emigranti – consci della propria libertà,
Migranti – appesantiti dai ricordi.
Alcune figlie e figli adottivi cercheranno,
alcuni odieranno.
Altri aspetteranno,
scuse,
ragioni,
e madri bio.
Alcuni si rifiuteranno,
alcune non riusciranno a lasciar andare,
altri lo desidereranno ardentemente…
Come Solitude qualcuno si troverà ad affrontare estranei.
Come Solitude qualche altro si troverà la porta chiusa in faccia. [41]
Disconnessa dalla vita ipotetica,
illusoria, che avrei potuto vivere,
così come Rosalie, ho sviluppato solitudine.
Arp – Alessia Petrolito
Vedi anche:
Camouflage: quando la propria storia non si vede
Note
[21] Dal vocabolario Treccani “1. Prendere come proprio il figlio di altri mediante adozione[…] 2. Con sign. particolari: […]farlo proprio”. Secondo l’etimologia Adottare dal latino – ăd (per/scopo) / optāre (scegliere/desiderare) “scegliere per uno scopo” – “scegliere per sè”. ” http://www.treccani.it/ – vedi anche www.etimo.it
[25-26] “La gente mi ha confuso con un immigrato, la gente mi ha confuso con un immigrato con la faccia da straniero nella mia nazione, mi danno dello straniero per il mio cognome” Nel versetto sopra citato Amir Issaa canta la canzone “Non sono un immigrato” nel suo album Paura di nessuno del 2008. La rabbia per non essere riconosciuto come italiano. “Sono nato qui… I was born here, take what you see just let me be…” canta Valentino Ag per la colonna sonora del documentario di Fred Kuwornu 18 IUS SOLI. La rabbia per non aver avuto la cittadinanza italiana.
[27] Durante il talk show Announo Valentino Agunu gridò: « l’utero di mia madre non è la frontiera. » In Italia il diritto alla cittadinanza dei bambini è profondamente legato a quella dei loro genitori – la proposta di legge estende e migliora le forme di acquisizione della cittadinanza italiana per I minori non italiani nati su suolo italiano, ius soli temperato and ius culturae, è tutt’ora ferma.
[33] “Il concetto etico-politico di moltitudine è incarnato sia al principio di individuazione sia alla sua costitutiva incompletezza” in Paolo Virno, Quando il verbo si fa carne Bollati Boringhieri, 2003, p. 193 Notare anche ciò che Deguchi scrive (citando Hübinette, 2005) sulle idealizzazioni degli adottati coreani svedesi sulle origini biologiche e sulle differenze esistenti nelle singole esperienze adottive, anche se alcuni adottati utilizzano il temine we per indicare tutti gli adottati di origine coreana nel mondo trascurando le differenti nazionalità. Sull’espressione we vedi Deguchi nota 44 (p. XII) dell’Introduzione.
Vedi anche ciò che Brewer scrive sull’ambivalenza della similarity threshold (soglia di similarità) e di come il passaggio dal percepire al non-percepire la differenza sia labile ed influenzabile dall’uso smodato di pronomi e aggettivi in altro caso positivi in Brewer, Marilynn B. and Gardner, Wendy; “Who is This “We”? Levels of Collective Identity and Self Representations.” In Journal of personality and social psychology, 1996 Volume: 71, Issue: 1, pp. 89
[35] “Perdersi significa perdersi rispetto ad un contesto. È quindi l’inversione, o il corto circuito di un processo culturale, lo svanire di una attenzione al mondo circostante.” in Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente (2000); Laterza 2005, p.10 – “«Perdersi», per l’appunto, non indica un’azione riflessiva, come pensarsi, parlarsi, toccarsi. In realtà «ci si trova perduti» o meglio «ci si ritrova perduti», dove l’azione riflessiva, è il cercarsi e il ritrovarsi, non il perdersi. Perché il fenomeno nel quale ci si ritrova non è un azione, ma una «passione».” Ivi p. 26
[36] Franco La Cecla nei suoi libri, Perdersi. L’uomo senza ambiente, e Il malinteso dell’incontro, discute i concetti di orientamento, insediamento e viaggio. La Cecla vede nell’abitare la soluzione umana allo spaesamento: il sentirsi fuori luogo. Ed in particolare discute le nozioni del perdersi o ritrovarsi perduti in relazione al contesto. [vi] Egli porta come esempio i nomadi e/o girovaghi che viaggiano per raggiungere un luogo o un santuario seguendo mappe mentali. Nello specifico i pellegrini sono visti da La Cecla come soglie, finestre sullo sconosciuto, ma anche come barriere di estraneità da chi li guarda. In Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente (2000); Laterza, 2005, p. 30
Dal vocabolario Treccani: “peregrīnus «straniero», riferito nel lat. tardo a chi veniva a Roma per scopo religioso; v. anche peregrino]. – 1. s. m. a. In senso stretto, chi si reca in pellegrinaggio a un luogo santo, solo o in gruppo, a piedi (come avveniva soprattutto anticamente) o su automezzi e treni, in viaggi collettivi organizzati […]b. In senso lato, vicino all’originario sign. del lat. peregrinus, viandante, persona che va errando qua e là fuori della propria patria […]2. agg. a. non com. Da pellegrino, che è del pellegrino, in senso stretto: un giorno tacitamente in abito p. là se n’andò (Boccaccio). b. Che va errando, che si sposta frequentemente da luogo a luogo: […] Più genericam., errante, errabondo: Rondinella pellegrina Che ti posi in sul verone (Grossi). c. Forestiero, straniero, esotico: Che fan qui tante p. spade? (Petrarca); costumi p., usanze pellegrine. d. fig. Strano, singolare, fuori del comune, e quindi nuovo, originale.” Dal Oxford English Dictionary una delle definizione di pellegrino è immigrato di recente “4. b. N. Amer. regional (chiefly west.) and colloq. (freq. depreciative). A recent immigrant, a tenderfoot; (of cattle) a newly imported or unseasoned animal. Now chiefly in weakened sense: a newcomer, a stranger.”
[37] Pur senza esserlo, le parole di Flusser nel raccontare la sua esperienza (scampato alla persecuzione nazista, perduta la famiglia e rifugiatosi in Brasile), si prestano a descrivere anche l’esperienza adottiva “[the adepte] was thrown into [her/his] first heimat (home) at birth without being asked. The bond that tied [her/him] to other were largely imposed to me” Dalla traduzione in inglese : “I was thrown into my first heimat at birth without being asked. The bond that tied me to others were largely imposed on me” in Vilém Flusser, The Freedom of the Migrant: Objections to Nationalism (Von der Freiheit des Migranten), Trans. by Kenneth Kronenberg, University of Illinois Press, 2003 p. 6 darà vita a ciò che l’autore chiama see clearly – (vedere chiaramente) – il comprendere quando la saudade (nostalgia) occulta il suo giudizio. (Ivi p. 4) In un certo senso il figlio adottivo trova nel viaggio la liberazione dell’azione, e il potere della scelta. Un adottato che decide di viaggiare e/o trasferirsi in terra natia, o in un’altra nazione diversa dalla propria, spinto dalla bramosia per un senso d’appartenenza (rootneness) si troverà a dover affrontare un senso di Heimatlosigkeit (Homelesseness in inglese) – una precarietà dovuta alla mancanza del senso di casa – la quale, dopo i primi tempi d’incertezza lo/la condurranno all’accettazione e alla conquista di quello che egli definisce freedom – libertà. Flusser riconosce in ogni partenza e relazione recisa, egli usa infatti la metafora del nodo, una crescita del suo senso di libertà, per lui essere liberi significa scegliere di continuare a partire e ancora più specificatamente la libertà è nel cambiamento che uno si porta dietro e dentro. (Ivi p. 5 e p.86)
[38-39]“The migrant becomes free not when he denies his lost heimat but rather when he holds it in memory.” (Il migrante diventa libero non quando rinnega la perduta heimat (casa) ma piuttosto quando la trattiene in ricord)o In Vilém Flusser, The Freedom of the Migrant: Objections to Nationalism (Von der Freiheit des Migranten), Trans. by Kenneth Kronenberg, University of Illinois Press, 2003 p. 6
“Crescere, significa, in effetti liberarsi dalle conseguenze drammatiche del perdersi” Franco La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente (2000); Laterza, 2005, p. 15
[40] “Quella del Pellegrino è un’identità fondata su un distacco – per questo è considerato un asceta o un avventuriero – e su di un passaggio. Ha messo da parte sicurezze ma anche gravami. Si è « perso » al suo passato, alla sua identità indigena che si porta appresso ma non gli consente più un ruolo ed una incorporazione sociale. Ma non ne acquisisce un’altra diversa da quella di essere, appunto, un pellegrino. In questo è il compagno dell’ebreo errante e l’antesignano degli esuli ” Ivi p. 29-30
[41] La mulâtresse Solitude è la storia di Bayangumay e Rosalie. La loro storia racconta la vita, le violenze e i conflitti della gente di Guadalupe, una delle colonie francesi nelle isole Antille, dal 1760 fino al 1802, con la fine della tratta degli schiavi attorno al 1780 e la reintegrazione della stessa a cavallo del XIX secolo. Rosalie è il risultato di uno stupro. Bayangumay, soprannome datole per le sue ciglia (Celle dont les cils sont transparents / Colei le cui ciglia sono trasparenti) alla nascita era stata Pongwé in onore di sua nonna (Ivi p. 10), era una giovane donna Diola, rapita e venduta come schiava e spedita su una nave a Guadalupe. Le atrocità inflitte a Bayangumay durante il viaggio e nel primo anno di vita di Rosalie sono omesse dall’autore. Nella seconda parte del libro a Bayangumay viene cambiato il nome in Bobette e la protagonista della storia diventa Rosalie. La storia di Rosalie inizia con il risentimento di Bobette, che finirà per scappare lasciando la figlia indietro. L’autore descrive il profondo attaccamento di Rosalie alla madre, e sottolinea la sua inabilità a concepirne il dolore. Rosalie non è al corrente del passato della madre, tra le due non vi è una relazione affettuosa, la loro esistenza è caratterizzata dal silenzio. Nonostante Bobette cercasse di mantenere le distanze, l’attaccamento alla madre di Rosalie cresceva giorno per giorno. La fuga di Bobette e il senso di abbandono portano Rosalie alla pazzia. Con la rivoluzione, dopo molti anni passati senza nessuno che si prendesse cura di lei, i molteplici abbandoni e rifiuti danno vita ad una nuova persona, ed è lei a quel punto a darsi un nome: Solitude. Prendendo parte alla resistenza degli schiavi e, assunto un ruolo fondamentale in un gruppo di ribelli, Solitude divenne una paladina e viene ricordata ed acclamata tutt’oggi per le sue gesta, per la voglia di uccidere, il desiderio di sangue, il modo in cui agitava la spada e… per il bambino che portava in grembo. Dell’infante a cui diede vita non vi è nota nel libro, se non che gli fu risparmiata la vita prima dell’esecuzione di Solitude e che fu portato ai ‘padroni’.