Quando un corpo è vivo lo si deve al segno.
Otto domande per Mariacristina Cavagnoli, disegnatrice, per approfondire e catturare l’essenza, che come il tempo nelle parole di Clarice Lispector sfugge per sua natura, in una lettera.
Voglio possedere gli atomi del tempo. E voglio catturare il presente che per sua stessa natura mi è interdetto: il presente mi sfugge, l’attimo svanisce, l’attimo sono io sempre nell’adesso.
Clarice Lispector
Ciao Alessia,
per prima cosa ti ringrazio per avermi coinvolta nel tuo progetto Arp Adoptic.
Come ben sai il mio medium linguistico ed espressivo è il disegno, proverò tuttavia a rispondere alle domande che mi hai posto con la massima onestà.
Come è nata la tua passione per il disegno? E quando hai deciso che saresti diventata un’artista?
Andando a ritroso nel tempo potrei dirti che già da bambina mi divertivo a scarabocchiare qua e là, e in seguito, grazie anche ai risultati delle pagelle scolastiche, mi sono accorta che disegnare era una delle pochissime cose che sapevo fare bene e con poca fatica; è diventata quindi una pratica che si è rafforzata nel corso degli anni in modo del tutto naturale.
La consapevolezza riguardo le mie capacità e la decisione di esprimermi attraverso il disegno sono arrivate parecchi anni dopo. Durante il mio percorso accademico ho iniziato a relazionarmi con il mondo, a confrontarmi con le persone e a mettermi in discussione come essere umano. Per quanto riguarda la decisione di diventare artista, non so se si possa diventare artisti né tantomeno decidere di esserlo, forse lo si è e basta. Mi risuona una frase di Pier Paolo Pasolini:
come avviene in tutti i mondi naturali: l’ape non sa di essere ape, la rosa non sa di essere rosa, il selvaggio non sa di essere selvaggio.
Cosa ti ha fatto scegliere la grafite come mezzo espressivo? E che significato ha per te il segno?
Con tutta sincerità non so chi ha scelto chi. Forse è stata anche la conseguenza di aver avuto una formazione liceale strettamente rivolta alla pratica, ho approfondito molto la tecnica del disegno grazie allo studio delle copie dal vero, delle nature morte, dei calchi in gesso e delle opere dei grandi maestri -in primis Giotto- ma anche attraverso lo studio della figura grazie ai modelli viventi che avevamo a disposizione.
Più avanti, nei primissimi anni dell’accademia, decisi di mettere da parte la matita per dedicarmi alla sperimentazione delle tecniche pittoriche (dall’acrilico, all’olio al carboncino), tecniche che mi sono risultate estranee sin da subito: non si trattava solo di una questione legata alla poca esperienza o all’ancor ridotta conoscenza della pittura, era piuttosto la sensazione di non riuscire a sentire mie queste tecniche; non mi appartenevano.
Della matita mi piace la sua immediatezza, è lì, non devi aspettare nulla, quando vuoi inizi a tracciare dei segni, delle linee, e decidi tu che tipo di pressione vuoi dare: è un dialogo intimo e diretto tra me e il foglio.
Il segno non lo vedo solo come un creare tracciando ma è anche uno scavare per entrare dentro.
Attraverso il segno tento di portare in superficie un qualcosa che si cela in profondità: rendere visibile l’invisibile.
Ci siamo conosciute nel corso della performance di Marina Cavadini al PAV nel 2016 per cui mi viene spontaneo partire da qui e chiederti: come ti sei avvicinata alla performance?
Dal 2016 Marina ha iniziato a coinvolgermi nelle sue performance, da quella fatta al PAV, dove ci siamo conosciute io e te, alla Triennale di Milano, fino a quella più recente del 2019 in Les doigts en fleur per HotHouse all’Orto Botanico di Torino.
Non vorrei risultarti ripetitiva nello scrivere nuovamente che è stata la performance ad arrivare, mia solo la decisione di accettare la collaborazione con un’altra artista (e amica), ma posso dirti con certezza che col tempo ho capito quanto sia forte in me l’interesse e la curiosità per gli artisti e per il loro modo di fare arte. Infatti, oltre ad aver lavorato come modella di posa per un anno in un liceo artistico, in questi ultimi anni ho avuto la fortuna e il piacere di partecipare a più collaborazioni e non solo nelle vesti di performer. Ho collaborato per un video di un progetto musicale del gruppo Corteccia e, più recentemente, ho fatto da modella per la boutique di moda Numerotrenta. Sono convinta che queste esperienze aiutino ad ampliare maggiormente gli orizzonti oltre ad essere un arricchimento non solo personale ma anche formativo.
Frequentare l’Accademia di Brera e l’interazione con il sistema dell’arte hanno mai cambiato il tuo processo creativo?
L’aver frequentato l’Accademia di Brera è stato per me fondamentale. In questo ambiente si è formata e consolidata la mia ricerca artistica. Questo è stato possibile grazie alle persone che ho incontrato e grazie al tempo che mi sono presa, tempo che non corrisponde con quello normale: lì ognuno ha un suo orologio.
Per quanto riguarda il mio processo creativo posso dirti che non si è lasciato influenzare né dall’Accademia né dal sistema dell’arte, ma di questo ne è testimone il mio lavoro.
Nel tuo lavoro – e mi riferisco ad Animalier, Altrove e Immersione – usi molto il nudo, che è poi il fulcro della tradizione classica, ma nel tuoi lavori sembra quasi un effetto collaterale, uno strumento per raccontare meglio, con più chiarezza. Come e quando hai iniziato ad usare il nudo?
L’autoritratto e il nudo sono la conseguenza di una necessità. Mi stupisco sempre nel ricordare come ha preso avvio la mia ricerca: quasi allo scadere del 2011, dopo anni di assenza dalla matita, inaspettatamente il mio percorso è ripartito con la nascita di Dorotea, un ritratto a pastelli di dimensioni modeste (37,5×50,3cm). Da quel momento ogni disegno che ne è seguito non ha tracciato solo l’evoluzione di un pensiero ma anche un cambiamento in termini di formato del lavoro; dal volto sono passata ai mezzi busti (50×70 – 100×70 circa), dai mezzi busti sono arrivata alle figure intere (il più recente 120x175cm).
Vorrei soffermarmi brevemente sulla parola necessità intesa come la condizione che ti porta a dover scegliere una determinata immagine in nome di un’autenticità. Era necessario che Animalier, Altrove e Immersione fossero degli autoritratti, come è stato necessario la loro raffigurazione nuda. La nudità non è solo uno strumento per raccontare meglio e con più chiarezza, essa è anche uno strumento di indagine; la mia è un’analisi psicologica del corpo e del suo mistero: come quando ci troviamo davanti all’emblema della sfinge, siamo l’enigma di noi stessi.
Il tempo è una parte importante dei tuoi lavori, quanto hai impiegato per terminare Altrove?
Quando sono nel mio studio la dimensione spazio-tempo-lavoro vanno di pari passo, hanno la stessa andatura e lo stesso respiro. Altrove è stato il mio secondo lavoro di grande formato, misura 147,5×105 cm ed è interamente eseguito a matita; includendo la progettazione del disegno – che coinvolge la fase del cartone preparatorio e la fase del lucido, usato per riportare ciò che ho fatto sul cartone direttamente sulla carta – il tempo impiegato per la sua realizzazione è stato dai sei ai sette mesi circa.
Ci tengo a sottolineare che il tempo che impiego quotidianamente, fissa su un disegno, non è dato da un’amore che ho per la lentezza, ma dal tempo che il lavoro richiede. È una questione di rispetto:
rispettare il proprio tempo e il tempo del mio lavoro come uno dei princìpi base della mia ricerca.
Hai degli artisti da cui prendi ispirazione?
Sono attratta da molte personalità. In un continuo divenire molte opere hanno cullato il mio lavoro rafforzando anche il mio modo di guardare e di pensare; non mi riferisco solo all’arte, ma anche alla letteratura, alla saggistica, alla poesia, al cinema, alla fotografia e al teatro.
Un ringraziamento particolare va a Balthus, F. Casorati, A. Giacometti, C. Schad, R.M. Rilke, C. Parmiggiani, M.L. Spaziani, C. Campo, A. Tarkovskij e tanti altri. Grazie per avermi tenuto compagnia nei momenti bui.
I tuoi autoritratti sono caratterizzati dal realismo e dal chiaroscuro con cui ritrai un’esistenza piena, un corpo vivo, che guarda (come in Autoritratto con matita e Animalier). Ma più di tutto viene guardato…(in Altrove e Immersione) e per questo rifugge lo sguardo dello spettatore non si nasconde ma è in un certo qual modo assente… Non si fa catturare. Invece in uno dei tuoi ultimi lavori Sogno notturno la presenza del corpo è implicita e noi ne vediamo lo sguardo, lo seguiamo perfino nell’intimità del sogno. Dimmi pure se sbaglio.
Sì, è proprio come dici tu. In tutti i miei lavori, autoritratti e non, questa dualità composta dalla presenza/assenza risulta essere una delle parole chiavi della ricerca.
Cosa c’è e cosa non c’è?
C’è sempre l’essere umano nella sua intimità fisica e mentale. Delle volte è rappresentato come una presenza, un esserci, evidenziato dall’affermazione e dalla sfrontatezza del corpo, altre volte è rappresentato come un non esserci, nell’uscita da se stesso; in questo suo assentarsi vediamo solo l’immobilità di un corpo sospeso.
Dove va?
Non lo sappiamo, vediamo solo che se va. Se ne va.
Ti ho parlato degli Artisti dell’Adozione? Artisti di varie nazionalità che come tema hanno scelto la propria storia adottiva; sei mai entrata in contatto con qualcuno che lavorasse sul tema?
Si, me ne hai parlato! Personalmente non ho ancora conosciuto artisti che lavorano sul tema della propria storia adottiva e per quanto mi riguarda non ti so dire quanto questo abbia influito o quanto continui a influire sulla mia ricerca.
Non si sa quasi niente di ciò che echeggia nelle nostre cavità più profonde; molto è celato e troppo poco si riesce a capire. Unica certezza: quella di non smettere di cercare.

Cara Mariacristina,
Grazie a te per avermi dato modo di raccogliere la profondità dei tuoi pensieri.
Alessia Petrolito
Riferimenti:
Clarice Lispector, Acqua viva (1973), Adelphi, 2017, pg.10