“Ciò che disse l’Africa o l’africana” – Sul teatro e la performance

“Trans animus” Courtesy the Artist

Ho conosciuto Afrodixit nel bel mezzo della quarantena, dopo aver partecipato a un live e presentato la mia ricerca sugli artisti e le artiste dell’adozione; mi ha scritto, ci siamo sentite al telefono e nel raccontarci le nostre esperienze, per di vita sia artistiche.

Ho voluto sapere com’è nata la sua passione per il teatro e cosa gliel’ha fatto scegliere come mezzo espressivo. Dare corpo a personaggi e storie oltre al fascino regala un senso di liberazione, che intravedo chiaramente nei suoi lavori; la sua produzione è intermediale, e va sovrapponendo tecniche espressive contemporanee come la fotografia, la performance, il video e la net art.

Non si può fare a meno di chiederle come è nata Afrodixit, e quanto ha influito studiare African Development Studies sul suo processo creativo, sul modo in cui mescola elementi, iconografici e simbolici, provenienti da culture e tradizioni differenti e sulla rappresentazione del corpo femminile nero, spesso tormentato e frammentato ma innegabilmente protagonista.

Le ho chiesto di raccontarsi per #passioneartelavoro, c’è voluto un po’ ma ecco a voi Afrodixit

Ora, dopo un viaggio a ritroso verso le mie origini posso orgogliosamente mostrare che sono Africana, almeno apparentemente ed intimamente. 

Sono una figlia adottiva, cresciuta in una delle tante province italiane: a me è toccata quella bergamasca; ed ero veramente da sola. I primi neri li ho visti in villeggiatura al mare e, stando a quanto dice mia madre,  alla vista di un nero, mi spaventavo e correvo dietro le sue gambe, mentre mio fratello, bianco, lo guardava incuriosito.

Sì, purtroppo succede, a molti bambini neri, immersi in una società bianca: l’identità, nei primi anni di vita si forma attraverso gli altri; gli altri nel mio caso erano tutti bianchi; lo specchio riflette ciò che gli occhi sono abituati a vedere. 

Allora, se mi sento bianca e mi vedo bianca, perché alcune persone mi trattano diversamente rispetto agli altri, con una certo atteggiamento “maternale” o di pietismo ? 

“Ah, sei stata adottata, poverina; ti trattano bene i tuoi ? Sei fortunata !? Ma parli bene l’Italiano ? Posso toccare i tuoi capelli ? Posso toccarti ? Che pelle soffice che hai ”.

Non potendo più bisticciare, litigare o a volte anche menare, i miei coetanei, ho deciso, magicamente di indirizzare la mia rabbia altrove, iniziando a far teatro.

Finalmente ero libera: in quelle due ore di corso, la lezione che mi piaceva di più era l’improvvisazione; avrei potuto essere chiunque, avrei potuto sfottere, insultare, ammiccare, piangere, urlare, abbracciare, non rivelando le mie angosce interne, avrei potuto sfogarmi in incognito.

Non ero io, ero qualcun altro ma, allo stesso tempo veicolavo le mie frustrazioni, la mia rabbia, e il mio solito stato confusionale, in un altra persona. È come se mi alleggerisca, per un istante, del peso invisibile che continuo a portare sulle spalle da sempre: quello di sentirmi sempre fuori posto, quindi avere un espressione imbarazzante, trasformata in un perenne sorriso. 

Per una decina di anni è andata bene, dal teatro classico, sono passata al teatro sperimentate e a lavorare insieme ai migranti. 

Ho interpretato ruoli di culture diverse e discordanti tra loro: da arlecchino legato alla commedia dell’arte bergamasca, da essere una donna migrante rifugiata e alla deriva, ad essere una diva e infine mi sono ritrovata a far la “Mami di via col vento” in una commedia allegorica.

Fermi tutti, io a questo giro non ci sto !

Ormai gli anni erano passati da quando ho iniziato a far teatro ( 15 anni or sono ) ma, in quel periodo avevo più di vent’anni e la mia identità, soprattutto la mia consapevolezza di ragazza nera in una società di bianchi, stava cambiando.

La Mami, non era semplicemente, una dolce paffutella domestica nera ma, rappresentava la tipologia di nera stereotipata e razzializzata dalla società americana. 

E ho deciso di far performance art da sola o volte con colleghi che mi supportavano.

AFRODIXIT è un appellativo che mi sono data quando ho deciso di mostrare da sola i miei pensieri e il mio mondo creativo.

Il nome AFRODIXIT è composto da due parole che esprimono due provenienze ; quella africana e quella latino/italiana; tradotta significa: ciò che disse l’Africa o l’africana.

AFRODIXIT rappresenta la mia doppia identità plurale, quella di avere sia un identità intima personale legata alle mie origini, l’Africa, sia di aver acquisito un’identità sociale occidentale di pensiero e di comportamento. L’una gioca con l’altra , l’una integra l’altra. Questo metissage culturale mi ha permesso di affrontare situazioni sociali ed eventi anche drammatici, perché riuscivo ad adattarmi o a comprendere certe soluzioni o atteggiamenti grazie agli elementi di vita vissuta o a ricordi ancestrali trasmessi dagli avi…

Ognuno di noi porta con sé caratteristiche dei propri avi, trasmessi attraverso il dna: in questo ci credo ciecamente.

Ora con l’appellativo AFRODIXIT,  ho fatto coming out: sono nera, sono di origine africana, sono europea ed italiana; i suffissi afro-italiana o italo -africana, mi stanno stretti. La mia identità appartiene alla mia unicità, rappresentata dalle particolarità delle mie pluri identità.

Di conseguenza, nell’accettazione delle mie origini, ho cominciato a studiare seriamente la storia dell’Africa. In realtà avevo letto libri di autrici afro-americane che, in qualche modo, erano riuscite ad infondermi il coraggio e l’orgoglio nell’appartenere alla cultura nera e poi africana ma, era necessario traslare le storie romanzate e le teorie delle cultura black american, in un contesto contemporaneo e attuale in cui ero immersa, quello italiano.

I miei lavori si concentrano sul simbolismo ancestrale, delle origini: seguo un emozione del momento, che rappresenta sinteticamente le vicissitudini quotidiane, i discorsi ascoltati e detti, soprattutto la rabbia e la frustrazione inespressa; questa ondata di emozioni mi permettono di creare, spesso è l’immaginario o un ricordo ancestrale che mi propone di esporre me stessa e le mie idee. Il progetto viene successivamente: quando noto di aver fatto dei lavori molto simili tra loro, li riunisco in un progetto dialogico.

I’ M HERE  non posso farci niente, devo solo sopravvivere nel miglior modo.

 


 

Esprimere e condividere attraverso l’arte è essenziale per chi coesiste in questo mondo/sistema.
Cara Afrodixit, grazie per aver condiviso questa produzione così particolare, questo ‘mondo creativo’ così tuo.

Alessia Petrolito