Dopo la polemica su Via col vento e gli sterili articoli di cronaca italiana sulla nuova politica anti-razzista della piattaforma Disney + (secondo alcuni quasi più scandalosa dell’attacco dei Trump-Supporters al Campidoglio) [1] non ho potuto fare a meno di ricordarmi quello che ho studiato nella vita… Coniugare testi e immagini, non necessariamente in quest’ordine; insomma, ho studiato per imparare a vedere, leggere, trovare e creare collegamenti. Quale mezzo migliore dei contenuti televisivi così accessibili grazie alla distribuzione web?!
Per cui, dopo un lungo periodo di letargo, largo spazio a Bridgerton, Lupin e al binge watching su Netflix!
Una domanda mi sorge spontanea: ma quei geni di NETFLIX si impegnano a mostrare e condannare il colorismo o a seguirne e glorificarne i principi? Da dove spuntano quei giornalisti di testata offesi dalla carnagione color caramello della Regina d’Inghilterra e un ladro alla Lupin ‘nero’? Ma soprattutto perché la prima reazione di alcuni sostenitori della diversity in television è stata sottolineare il fatto che l’aristocrazia bridgertonniana è di discendenza mista, in pieno stile non-è-nera-nera!? Non è che forse-forse tra una polemica e l’altra si è perso di vista il punto…?!
Il punto è che in Italia, attraverso i media, si sono solo recentemente ‘scoperte’, o per meglio dire riconosciute, forme di razzismo all’italiana; siamo giunti nel 2021 con un senso comune (in senso lato) creato d’emblée l’altroieri, nel 2020, che pensa di sapere che cos’è il razzismo senza viverlo e soprattutto ignorando di averlo inflitto per davvero… Adesso, che a breve o nei prossimi anni, si arrivi (anche senza titolo) a parlare anche di colorismo poco importa; perché al 99% chi ne parlerà non avrà i mezzi per farlo avendo perso tutto il discorso precedente… [2]
Personalmente, ho maturato la consapevolezza che – in particolare qui in Italia – faccia comodo tradurre la cultura e la letteratura nera americana senza spiegarne i contenuti, senza note, senza esperti…
Non c’è da stupirsi se poi, quando si affronta un argomento come il razzismo, non si arriva a parlare di colorismo; non si può parlare di uno senza l’altro, sono parenti, fortemente interconnessi; nonostante quest’ultimo – il colorismo – sia una forma di discriminazione più longeva, mutevole e diffusa, che raggiunge tutti, fa arricchire pochi e che a tratti si fa chiamare ‘gusto’.
Il colorismo è una classificazione ben più sottile e praticata all’interno dell’etnia stessa… Per parlarne però, bisogna iniziare col dire che è una forma di discriminazione che assegna – o toglie – potere e privilegio in base alla carnagione di pelle; ma non basta bisogna farlo vedere! Bisogna mostrare come si insinua in noi, attraverso esempi concreti, accessibili e comuni…
Per cui, chi da un anno a questa parte grida all’inclusività e ‘all’attualità’ a tratti visionaria dimostrata nelle nuove fiction italiane con protagonisti/e afrodiscendenti (Nero a metà, DOC nelle tue mani, Summertime, Mental e compagnia bella) dai produttori e dai creatori NETFLIX (Bridgerton, Lupin, Tiny Pretty Things, ecc.) dovrebbe frenarsi un attimo a riflettere: ma ciò che vedono i miei occhi corrisponde, nasconde o sfida queste convinzioni?
Prendiamo due serie con protagonisti/e afrodiscendenti, una famosa e l’altra semi-sconosciuta (come suggerisce Mae Abdulbaki). [3]*
La prima, Bridgerton (2020), è una produzione Netflix Original in collaborazione con ShondaLand di cui tutti parlano e scrivono – chi con più e chi con meno entusiasmo.
Invece la seconda, Still Star Crossed (2017), era una produzione ShondaLand in collaborazione con ABC cancellata alla prima stagione dopo soli sette episodi per mancanza di ascolti. Due serie televisive create l’una, Bridgerton, da Chris Van Dusen e tratta dall’omonimo romanzo di Julia Quinn ambientata per l’appunto nell’era della reggenza a Londra; l’altra, Still Star Crossed, ambientata a Verona scritta da Heather Mitchell e tratta dal libro di Melinda Taub che a sua volta prende ispirazione da “Romeo e Giulietta” di Shakespeare per continuare la faida tra Montecchi e Capuleti. [3]**
Entrambe rispondono alla polemica #OscarsSoWhite (2015) e al movimento contro la mancata rappresentazione della diversità in televisione, quest’ultimo promosso nel 2016 da attori come Idris Elba e Omar Sy tra gli altri.
L’evidente successo di una, versus il fallimento dell’altra, non è un caso. Quale sarà mai la differenza tra le due? C’è chi dice che la risposta stia negli occhi di chi guarda. Io aggiungerei nell’audience che si sceglie di targhettizzare [4], nei denari a budget per la produzione, nella ‘color palette’ scelta per la fotografia dei vari pilot, nel copione e nell’aspetto esteriore dei protagonisti: l’insieme di queste componenti contribuisce alla veicolazione di un qualsivoglia messaggio. [5]
Lasciando da parte Still Star-Crossed e il suo triste destino, per rispondere alla domanda se il colorismo, in una serie come Bridgerton, è celato o esposto basta analizzare a fondo alcuni dei suoi personaggi, e la carnagione degli attori e delle attrici scelti per interpretarli…
- La Regina Charlotte e le sue dame (clicca per vedere il frame)
- Il Duca di Hastings e Lady Danbury (clicca per vedere il frame)
- Il Duca di Hastings padre (clicca per vedere il frame) – che guarda caso risulta essere un pessimo genitore.
Il confronto tra finzione e realtà è la parte più interessante.
Quando si va oltre la serie, dentro la mente degli autori, non si spalancano solo i portoni della fantasia, ma quelli della triste realtà: le opere fiction sono la bella e la brutta copia delle opere non-fiction e quindi della vita quotidiana E’ intrigante individuare il punto di partenza capire l’origine e – quando si può – lo sviluppo di un personaggio.
Per leggere tra le righe, le stoffe, i merletti, e le scene di sesso presenti nelle produzioni televisive, seppur leggere come Bridgerton, ci vuole supporto, ci vuole Margo Jefferson!
Il memoir “Negroland” della scrittrice e giornalista Margo Jefferson spiega abilmente la costruzione dell’alta società nera americana negli Stati Uniti e mostra la profonda connessione esistente tra una certa carnagione di pelle, la classe e il potere.
Fin dalle prime pagine, Margo Jefferson definisce bene cosa intende per Negroland:
“Negroland è il nome che ho assegnato a una piccola regione dell’America Negra i cui abitanti erano protetti da un certo grado di benessere e privilegi”. (traduzione di Sara Antonelli)
“Negroland is my name for a small region of Negro America where residents were sheltered by a certain amount of privilege and plenty.”
Margo Jefferson
Successivamente l’autrice illustra chiaramente le radici coloniali del colorismo la sua evoluzione all’interno della società americana, che consiste nei fenomeni sociali come il passing (passare per bianco), e come lo stesso si rifletta nell’industria dell’intrattenimento aglo-americana e francese. Nel confrontare le rappresentazioni televisive nordamericane con la conoscenza insider offerta da Jefferson, appare chiaramente l’influenza di quel contesto sociale e culturale sulla consacrazione dei personaggi dello show business e come la loro carnagione resti – tuttora – il metro decisionale per lo sviluppo e il successo di una produzione. Ed ecco allora spiegate le scelte degli autori per la sceneggiatura e i casting dei tanto acclamati personaggi afrodiscendenti di Bridgerton.
Margo Jefferson scrive sulla carnagione chiara dei cittadini di Negroland :
“La maggioranza è di discendenza razziale mista e quella discendenza offre loro più possibilità di accedere a clienti bianchi e parenti facoltosi” . (traduzione di Sara Antonelli)
“The majority are of mixed racial ancestry because that ancestry gives them more access to well-placed white patrons and relatives”
Margo Jefferson
Un esempio, in Bridgerton, si trova nella modista, 4. Genevieve Delacroix (clicca per vedere il frame).
E infine, siamo sempre nell’introduzione del tema in “Negroland”, Jefferson richiama quanto sostenuto da Cyprian Clamorgan (intellettuale americano del ‘700 discente di Jacques Clamorgan e autore di The Colored Aristocracy of St. Louis.) per sottolineare come per le donne nere un certo colore di pelle fosse preferibile – se non necessario – per ottenere e mantenere diritti e privilegi.
“Cyprian encomia le signore per la loro intelligenza ma si sofferma in modo assai più particolareggiato sulla tonalità della loro pelle, su quella dei loro capelli, e sui loro successi e scivoloni in società”. (traduzione di Sara Antonelli)
“Cyprian commends ladies for their intelligence but dwells far more on the particulars of their skin tone, hair grade, and social gracies or lapses.”
Margo Jefferson
E allora guardate la carnagione di 5. Miss Marina Thompson (clicca per vedere il frame), inizialmente la debuttante più corteggiata della stagione, e l’evoluzione del suo personaggio alla scoperta del suo stato interessante – cosa che in quei tempi la porta ad un passo dalla disgrazia…
” Avorio, panna, beige, grano, tanno, camoscio, fulvo, café au lait e le sfumature più chiare del miele, ambra e bronzo sono i colori migliori. […]” (traduzione di Sara Antonelli)
“Ivory, cream, beige, wheat, tan, moccasin, fawn, café au lait, and the paler shades of honey, amber, and bronze are best. […]“
Margo Jefferson
In conclusione, non basta colorare la scena cinematografica e televisiva di un continente e aggiungere attori afro/asio-discendenti per creare un clima inclusivo – se non cambiano i meccanismi di gioco!
Tanti piccoli particolari di una storia, di un personaggio, possono andare persi, vittime dell’entusiasmo, assimilati a nostro malgrado o addirittura dati per scontati. Lo spettatore è pigro – brama ma non scava – e chi crea i contenuti mediatici propende per ciò che conosce, ciò che ha visto, concetti triti e ritriti ma lustrati per l’occasione; se al successo può arrivarci solo chi ha un po’ di Europa nelle vene, o al contrario chi viene usato come token per provare il contrario, va da sé che il colore, la classe e il potere vanno a braccetto davanti e dietro lo schermo, e che di conseguenza le produzioni a sostegno di un reale cambiamento, restie a questi mezzi, restino disarmate e soccombano senza finanziamenti. Una prospettiva che per noi, spettatori e spettatrici, dovrebbe essere tutt’altro che appassionante.
Alessia Petrolito
Note:
[1] Policy – targata dai comuni cittadini come finto e innecessario ‘politically correct’ – che prevede l’inserimento di un remider/disclaimer che sottolinea la poca sensibilità di alcune scene e che, non si sa bene perché, sembra offendere il pubblico di affezzionati genitori che teme di non poter educare i propri fanciulli e le proprie fanciulle mostrando loro i grandi classici della loro infanzia (Dumbo, Peter Pan e altri cartoni… ) come se riconoscere importanza ad una società che si assume le sue responsabilità fosse una vergogna!
https://www.lastampa.it/topnews/tempi-moderni/2020/10/16/news/la-disney-adesso-si-scusa-anche-per-i-suoi-grandi-classici-siamo-stati-razzisti-perdonateci-1.39424545
[2] VI SFIDO, PROVATE A GOOGLARE COLORISMO / COLORISMO IN ITALIA… I risultati si contano su due mani… Troverete qualche articolo sparso nel tempo e nello spazio (Stefano Grimaldi su Lindro, Matteo Viavaldi su il Manifesto, e Kathleen Hou su Vogue Italia), con una ricerca un po’ più mirata ( Giulia Lanfredi su Bossy, Raffaella Frullone su la Nuova Bussola Quotidiana e perfino Beppe Grillo) e infine qualche clip su YouTube (cimdrp, Judith Mimi) qualche blog personale, niente di istituzionale…
Nell’intraprendere una qualsiasi ricerca amatoriale online, un chiaro indice è il fatto che nella pagina dedicata su wikipedia, non esista il corrispettivo italiano che spieghi – che cos’è il colorismo? – e che anche la Treccani si fermi all’aspetto storico artistico (https://www.treccani.it/vocabolario/colorismo/)
[3]* Mae Abdulbaki nell’articolo “Shonda Rhimes has a New Netflix Show and It’s Got ‘Still Star-Crossed’ vibes” sul blog politico Pajiba del 15 ottobre 2020, chi aveva visto Still Star Crossed se ne ricorda ancora molto bene… (btw thank you my dear Asha Iman Veal for pointing that out): c’è una tumbler page, una lettura critica dei due show su Medium nella pubblicazione Up Next in the Queue… Non occorre sottolineare che credo fermamente non sia mai arrivata sulle reti italiane!
[3]** i due team di creativi sono costituiti da autori e autrici bianchi americani o britannici… eccetto il nome a capo della casa di produzione ShondaLand, Shonda Rhimes, la mente dietro alla serie Grey’s Anatomy negli anni d’oro…
Non a caso il prossimo passo a Hollywood sembra essere diversificare gli ambienti di produzione… (https://www.latimes.com/entertainment-arts/tv/story/2020-12-29/ava-duvernay-peter-roth-hollywood-diversity-array-crew-database)
[4] La bellezza del Duca di Hastings mira a colpire l’ego delle donne – bianche – proprio come Daphne Bridgerton, così come il personaggio del dr. Jackson Avery (Grey’s Anatomy) era stato spinto tra le braccia del pubblico femminile – oltre che dall’innegabile fascino – dall’amore dimostrato per lui da dr. April Kepner (prima e dopo la liason con dr. Stephanie Edwards) e molto prima che gli fosse ‘concessa’ la relazione con dr. Maggie Pierce.
[5] Trovo sorprendente il successo anacronistico dei costum drama (Medici, Tudor, Reign, ecc.), più ci si vota al progresso e all’emancipazione e più la bigotteria del passato assume un carattere nostalgico, quasi trasognato.
Riferimenti:
Margo Jefferson, Negroland a memoir (2015) Vintage Books Pgs 3, 13, 20 e 53 / traduzione italiana a cura di Sara Antonelli per la casa editrice 66thand2nd del 2017, pg 9, 19, 26 e 59 (grazie Espérance Hakuzwimana Ripanti per il suggerimento)